Oltre i social media: la storia di Muna e la guerra
Muna vive in Italia da cinque anni, ma è originaria della Siria – Paese martoriato da un conflitto civile che dura ormai da più di un decennio e di cui noi, qui in Occidente, osserviamo i drammi spesso sui nostri social media, al sicuro migliaia di chilometri. Mentre la osservo sorridere dallo schermo, rifletto su quanto estrema possa essere l’esperienza esistenziale di chi proviene da un territorio di guerra.
La guerra è un mostro che divora tutto ciò che è quotidiano e familiare, disgrega il tessuto sociale che tiene insieme i legami comunitari. Costringe spesso ad abbandonare la propria casa e il proprio Paese per raggiungere un luogo lontano. Lì sarà di vitale importanza adattarsi il prima possibile a cultura, lingua e istituzioni nuove.
L’occasione di una nuova scoperta
In ciascun punto di tale percorso umano risiedono almeno due elementi: il rischio di spezzarsi, di lasciarsi travolgere dalla corrente del dolore e della fatica che trascina sempre più a fondo e la possibilità di attingere alla forza alchemica della resilienza. Ciò è in grado di trasformare il vissuto più penoso in materia prima da plasmare.
Allora ogni esperienza può diventare un campo di ricerca su sé e sul mondo, un’occasione per sviluppare nuove capacità e conoscenze, una possibilità di scoprire risorse interne che nemmeno si immaginava di possedere. Il risultato? Un rafforzamento complessivo della propria personalità e della storia di vita che ne è alla base.
Muna oggi
E dunque, qualunque sia la sua storia personale, attraversandola, Muna ha saputo diventare quel che è oggi: una giovane madre che parla tre lingue – arabo, inglese e italiano – studia giurisprudenza e mette a servizio dell’attivismo per i diritti umani tutte le sue competenze.
Al polso indossa un nastro rosso. Due anni fa, durante un’iniziativa di sensibilizzazione, lei e altri attivisti che si occupano di migrazione l’hanno scelto come simbolo di solidarietà verso tutti coloro che, nello sforzo di raggiungere l’Europa per iniziare una nuova vita, hanno invece trovato la morte in mare. «Per me è stato più facile, sono arrivata con un visto. Ma tante persone non sono così fortunate. È mio dovere e piacere dare una mano.»
I social media come cassa di risonanza
Per farlo, tra le altre cose, Muna sfrutta una delle maggiori caratteristiche dei social media: la capacità di amplificare un messaggio diffondendolo il più velocemente possibile. È così che gestisce gli appelli che le giungono non solo dall’Italia ma anche da Libia, Grecia, Turchia, Balcani. Quando non può intervenire in prima persona per fornire supporto – si tratti di un letto in cui dormire, di una consulenza legale, di una traduzione – attiva la rete di collaboratori, associazioni e organizzazioni che si è costruita nel tempo, raggiungendola rapidamente con un post su Facebook o una storia su Whatsapp.
Ma se da una parte i social media offrono la possibilità di far viaggiare un messaggio in tutto il mondo nell’arco di pochi secondi, dall’altra ciò comporta la rinuncia – almeno parziale – al controllo sul suo processo di diffusione. Una volta lanciato nel web, un testo può essere infatti rimbalzato, replicato, ripubblicato su qualsiasi piattaforma, spesso letto da occhi a volte molto diversi da quelli che l’autore desiderava raggiungere.
Il caso Diciotti e l’hate speech: l’esperienza di Muna
Due anni fa Muna ha collaborato con un team di avvocati a lavoro sul caso Diciotti. Un giorno, nello sforzo di cercare supporto per i migranti presenti sulla nave ha lanciato un post su Facebook, sperando che qualcuno dei suoi contatti potesse far fronte all’appello. L’amministratrice della pagina Facebook di un’organizzazione politica d’ispirazione dichiaratamente fascista ne ha fatto uno screenshot che poi ha pubblicato insieme a un suo post. Una valanga d’odio online fatta d’insulti e di minacce di ogni genere si è riversata su Muna, che tramite segnalazione ha chiesto e ottenuto da Facebook la rimozione del post.
«È stato davvero terribile. Non tanto per me personalmente – purtroppo sono abituata a ricevere commenti odiosi come quelli – ma soprattutto perché c’erano vite umane in pericolo e noi non abbiamo potuto fare niente.» Poiché gli attacchi hanno raggiunto anche alcuni collaboratori che aveva taggato, l’attivista è stata costretta a cancellare dalla propria bacheca il post con l’appello. Ciò ha vanificato quella avrebbe potuto essere un’ottima risorsa nell’attivare potenziali forme di sostegno nel corso di un’emergenza.
Indomito coraggio, grande determinazione contro l’hate speech
Ma non si è lasciata intimidire. Muna non ha mai smesso di impegnarsi nella difesa dei diritti umani e continua, con la sua associazione, a condurre attività di sensibilizzazione in scuole e musei.
Continuare a farlo è fondamentale perché «Tante volte l’odio nasce dall’ignoranza. Per questo ci vuole sempre più confronto con l’altro. Occorrono iniziative di formazione e informazione.»
3 Febbraio 2021
Social media, hate speech e attivismo: Muna e la sua storia
Oltre i social media: la storia di Muna e la guerra
Muna vive in Italia da cinque anni, ma è originaria della Siria – Paese martoriato da un conflitto civile che dura ormai da più di un decennio e di cui noi, qui in Occidente, osserviamo i drammi spesso sui nostri social media, al sicuro migliaia di chilometri. Mentre la osservo sorridere dallo schermo, rifletto su quanto estrema possa essere l’esperienza esistenziale di chi proviene da un territorio di guerra.
La guerra è un mostro che divora tutto ciò che è quotidiano e familiare, disgrega il tessuto sociale che tiene insieme i legami comunitari. Costringe spesso ad abbandonare la propria casa e il proprio Paese per raggiungere un luogo lontano. Lì sarà di vitale importanza adattarsi il prima possibile a cultura, lingua e istituzioni nuove.
L’occasione di una nuova scoperta
In ciascun punto di tale percorso umano risiedono almeno due elementi: il rischio di spezzarsi, di lasciarsi travolgere dalla corrente del dolore e della fatica che trascina sempre più a fondo e la possibilità di attingere alla forza alchemica della resilienza. Ciò è in grado di trasformare il vissuto più penoso in materia prima da plasmare.
Allora ogni esperienza può diventare un campo di ricerca su sé e sul mondo, un’occasione per sviluppare nuove capacità e conoscenze, una possibilità di scoprire risorse interne che nemmeno si immaginava di possedere. Il risultato? Un rafforzamento complessivo della propria personalità e della storia di vita che ne è alla base.
Muna oggi
E dunque, qualunque sia la sua storia personale, attraversandola, Muna ha saputo diventare quel che è oggi: una giovane madre che parla tre lingue – arabo, inglese e italiano – studia giurisprudenza e mette a servizio dell’attivismo per i diritti umani tutte le sue competenze.
Al polso indossa un nastro rosso. Due anni fa, durante un’iniziativa di sensibilizzazione, lei e altri attivisti che si occupano di migrazione l’hanno scelto come simbolo di solidarietà verso tutti coloro che, nello sforzo di raggiungere l’Europa per iniziare una nuova vita, hanno invece trovato la morte in mare. «Per me è stato più facile, sono arrivata con un visto. Ma tante persone non sono così fortunate. È mio dovere e piacere dare una mano.»
I social media come cassa di risonanza
Per farlo, tra le altre cose, Muna sfrutta una delle maggiori caratteristiche dei social media: la capacità di amplificare un messaggio diffondendolo il più velocemente possibile. È così che gestisce gli appelli che le giungono non solo dall’Italia ma anche da Libia, Grecia, Turchia, Balcani. Quando non può intervenire in prima persona per fornire supporto – si tratti di un letto in cui dormire, di una consulenza legale, di una traduzione – attiva la rete di collaboratori, associazioni e organizzazioni che si è costruita nel tempo, raggiungendola rapidamente con un post su Facebook o una storia su Whatsapp.
Ma se da una parte i social media offrono la possibilità di far viaggiare un messaggio in tutto il mondo nell’arco di pochi secondi, dall’altra ciò comporta la rinuncia – almeno parziale – al controllo sul suo processo di diffusione. Una volta lanciato nel web, un testo può essere infatti rimbalzato, replicato, ripubblicato su qualsiasi piattaforma, spesso letto da occhi a volte molto diversi da quelli che l’autore desiderava raggiungere.
Il caso Diciotti e l’hate speech: l’esperienza di Muna
Due anni fa Muna ha collaborato con un team di avvocati a lavoro sul caso Diciotti. Un giorno, nello sforzo di cercare supporto per i migranti presenti sulla nave ha lanciato un post su Facebook, sperando che qualcuno dei suoi contatti potesse far fronte all’appello. L’amministratrice della pagina Facebook di un’organizzazione politica d’ispirazione dichiaratamente fascista ne ha fatto uno screenshot che poi ha pubblicato insieme a un suo post. Una valanga d’odio online fatta d’insulti e di minacce di ogni genere si è riversata su Muna, che tramite segnalazione ha chiesto e ottenuto da Facebook la rimozione del post.
«È stato davvero terribile. Non tanto per me personalmente – purtroppo sono abituata a ricevere commenti odiosi come quelli – ma soprattutto perché c’erano vite umane in pericolo e noi non abbiamo potuto fare niente.» Poiché gli attacchi hanno raggiunto anche alcuni collaboratori che aveva taggato, l’attivista è stata costretta a cancellare dalla propria bacheca il post con l’appello. Ciò ha vanificato quella avrebbe potuto essere un’ottima risorsa nell’attivare potenziali forme di sostegno nel corso di un’emergenza.
Indomito coraggio, grande determinazione contro l’hate speech
Ma non si è lasciata intimidire. Muna non ha mai smesso di impegnarsi nella difesa dei diritti umani e continua, con la sua associazione, a condurre attività di sensibilizzazione in scuole e musei.
Continuare a farlo è fondamentale perché «Tante volte l’odio nasce dall’ignoranza. Per questo ci vuole sempre più confronto con l’altro. Occorrono iniziative di formazione e informazione.»
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