di Loris Martino
Qualsiasi lettura critica riguardante l’era di internet non può prescindere, prima o poi, dall’affrontare la questione “meme”. Un concetto che, inteso nella sua accezione più particolaristica, indica quei media umoristici in cui ci si può facilmente imbattere sui social attualmente. Come vedremo, però, essi rappresentano solo il sintomo, mentre la diagnosi è ben più complessa.
Così intesi, il loro capostipite risale intorno al 1920, apparso su alcune riviste satiriche americane. Si incentrava sulla differenza fra l’autopercezione di un artista sul palco rispetto alla visuale del pubblico, il quale crede di apparire meglio di quanto faccia realmente. In perfetto stile delle vignette “aspettativa vs. realtà” che circolano sul web nel ventunesimo secolo.
Tuttavia, si tratta di un esempio ante litteram, poiché il termine è stato utilizzato la prima volta solo nel 1976 dal biologo Richard Dawkins. Nel suo libro The Selfish Gene, egli paragona la cultura umana all’evoluzione biologica, basata su entità in grado di replicarsi. Ecco quali sono i “virus” della “patologia” che stiamo cercando di descrivere. Negli organismi viventi queste sono i geni, mentre per la società i meme culturali. Persino l’intero periodo storico e paradigma socio-filosofico in cui viviamo, quello metamoderno, è definito un “meta-meme” da Hanzi Freinacht, riprendendo Dawkins.
Un loro particolare tipo, meno astratto, sono proprio i meme del web che tutti noi conosciamo. Essi iniziano a diffondersi negli anni ’90, concretizzando l’ironia ma anche la consapevolezza di vivere nell’attualità. Poi, con l’avvento dei social, conquistano in ordine cronologico Memepool, Youtube e Facebook, Instagram, TikTok, X insieme alle ultime novità. Mentre diventano sempre più complessi, recentemente cominciano a scherzare anche su argomenti drammatici e filosofico-esistenziali. “Sinceri”, per dirla con il linguaggio utilizzato nel cinema, con cui si indica la tendenza contemporanea a riportare tematiche di natura etica nei film.
Addirittura, gli ultimi anni di storia sono stati influenzati da tali “quanti” di cultura, (similmente alle minuscole unità di energia della fisica). Nel 2016, quando hanno praticamente trainato la campagna elettorale di Donald Trump e il suo “Make America Great Again”, per citare un caso esemplificativo. Occasione che ha visto i social riempirsi di immagini cariche di intolleranza, specialmente nei confronti di immigrati messicani e afroamericani. Parassiti, criminali, autori di complotti contro la società bianca, sono solo alcuni dei mondi con cui sono stati rappresentati. Si possono intuire gli effetti negativi a livello di polarizzazione, già grave negli USA, e sull’irrisorio dialogo fra le diverse comunità.
N.d.A.: la campagna elettorale di Trump è stata oggetto di una riflessione riguardo la politica della post-verità nel mio precedente articolo sul blog di Hate Trackers.
Un altro caso, recentissimo, deriva da alcuni video AI generated rappresentanti animali ibridati con oggetti o esseri umani, accompagnati da descrizioni spesso non-sense. Parlo dei “brainrot animals”, spopolati negli ultimi mesi sulle piattaforme principali, a partire dall’Italia. Queste “chimere” spesso portano con sé una buona dose di black humor riguardante tematiche sentite, quali le attuali guerre, e blasfemia contro alcune religioni.
Forse è nella possibilità di diffondere capillarmente un messaggio, per quanto distorto e ridotto a slogan, che risiede il segreto della loro viralità. Informazioni che spesso non fanno leva sulla ragione quanto sulle emozioni basilari dell’essere umano. Fra queste, l’odio diretto ad alcune categorie di persone, andando ad amplificare gli effetti dell’hate speech online.
Difatti, i loro effetti concreti sulla società, oltre al beneficio di strappare un sorriso, risultano ambivalenti. Possono costituire un modo per creare unione fra le persone, con effetti positivi sulla psiche, in una società divisa e appestata come non mai dalla depressione. Non a caso, i temi che esplorano riguardano, molto più di un tempo, la malattia mentale e i suoi effetti, fra gli argomenti caratterizzati da sincerità che citavo.
Le cause di mali simili della società, d’altro canto, sono parzialmente rintracciabili proprio nell’isolamento delle persone sulle stesse piattaforme dove i meme circolano. Una buona percentuale di essi, appunto, è direttamente complice nel diffondere discriminazioni verso minoranze di vario genere, soprattutto tramite humor sarcastico. Ecco che ironizzare diventa un pretesto per trasmettere, fin troppo seriamente, i propri pregiudizi.
Quando la complessità del nostro mondo attecchisce nel digitale sotto forma di meme, non si può né osannare né demonizzare il fenomeno. Sta a noi decidere verso dove far tendere maggiormente l’ago della bilancia. La vera domanda che potremmo porci è “come posso io usufruirne al meglio?”
N. d. A.: trovate altri articoli riguardanti la cultura umanistica contemporanea sul mio sito www.metameblog.com