Si sente spesso parlare di body shaming…
È. una forma di bullismo e cyberbullismo legata all’aspetto fisico. Un fenomeno assolutamente non nuovo, ma che con l’esistenza della vita online si è diffuso e aggravato. Inoltre risulta perfettamente in linea con quelli che sono i trend contemporanei, i quali promuovono una costante ricerca della “perfezione” fisica. Il grasso non è bello, non è salutare, non è sexy. E se siamo bassi/e? Beh, «altezza è mezza bellezza». E se abbiamo gli occhi scuri? «Insomma, gli occhi chiari hanno quel qualcosa in più.» E si potrebbe continuare per ore. Tutto può diventare motivo di body shaming.
Nell’immaginario collettivo sono le persone sovrappeso ad essere principalmente bersagliate da commenti offensivi e degradanti. Ed è assolutamente vero. Ma ora analizzeremo una storia un po’ diversa, di quelle che solitamente passano in sordina, o peggio, vengono accantonate quando si parla di body shaming.
La testimonianza di Debora
Debora ha 26 anni, è originaria di Reggio Calabria e al momento lavora all’estero presso uno shelter per ragazzi migranti minori non accompagnati. Ha uno spirito curioso, aperto al mondo e alle novità, una sensibilità molto acuta che le permette di comprendere l’altro senza nascondere alcun pregiudizio e, spesso, giudizio.
A prima vista, Debora non rappresenterebbe quella che la maggior parte di noi definirebbe la “tipica vittima”. Un metro e sessanta di altezza, una corporatura esile perché, a differenza della maggior parte delle sue coetanee, non prende peso facilmente, una carnagione olivastra tipica delle zone mediterranee. Ebbene si, anche Debora rientra nel gruppo delle vittime d’odio, perché anche essere “troppo magre” non è bello! O quantomeno deve nascondere qualche disturbo alimentare, quindi non è sano.
Le critiche, gli sguardi indiscreti per la strada, le battute sulla sua costituzione fisica sono tanto taglienti e inappropriate quanto le offese arrecate alla controparte definita oversize. Debora ha ricevuto commenti da chiunque: amici, conoscenti e sconosciuti. E il fatto che anche le persone più vicine a lei abbiano espresso pensieri ed opinioni sulla sua fisicità evidenzia come la gente non ritenga che essere troppi magri possa essere un problema, seppure lo facciano notare.
«Posso contarti le costole?», «Ma dopo che hai mangiato, vomiti?», «Lo sai che sul tuo corpo si potrebbe studiare anatomia?».
Contro il body shaming: normalize your body
La storia di Debora richiama all’attenzione un fenomeno di cui non si parla molto e lo stesso messaggio del
“normalize your body” lanciato negli ultimi anni dovrebbe spronare a normalizzare non solo il corpo degli “oversize”, ma anche dei “troppo magri”. Perché anche se più raro, non significa che sia meno penoso o doloroso. Quindi se possiamo affermare che l’era del fat shaming non sia finita, in egual modo possiamo affermare che quella dello skinny shaming non sia ancora iniziata, nonostante si parli semplicemente di due volti della stessa medaglia che da sempre convivono.
Nell’accettazione della propria fisicità, racconta Debora, risulta di fondamentale importanza rendersi conto che «i 40 kg per 1.60 di altezza non mi definiscono come persona», un messaggio molto importante per coloro che come lei subiscono commenti sul proprio peso. La consapevolezza che la forma del corpo non va a definire la persona che si è, il carattere, la moralità, i valori, si costruisce attraverso un percorso molto complesso ma che potrebbe essere facilitato grazie alla condivisione delle storie personali di coloro che subiscono questa forma di odio.
Debora sottolinea che aver avuto la volontà e la possibilità di raccontare la propria esperienza potrebbe alzare il livello di attenzione rispetto al suo caso, aumentare la sensibilità di coloro che fino ad oggi hanno sottovalutato l’impatto dei commenti verso le persone “troppe magre” e allo stesso tempo potrebbe in qualche modo aiutare le vittime di skinny shaming a sentirsi meno sole.
Una nuova forma di sensibilità ed empatia verso le vittime di skinny shaming
Debora non definisce le persone che l’hanno criticata e/o derisa necessariamente degli haters, ma ritiene piuttosto che manchi la costruzione di un discorso che diffonda una nuova concezione di “sensibilità” e di “empatia” capace di abbracciare l’intero spettro delle discriminazioni basate sulla fisicità. E questo discorso dovrebbe essere promosso non solo all’interno di piccoli, intimi nuclei di persone, come per esempio in famiglia. Contemporaneamente dovrebbe essere sostenuto dalle case di moda, dai giornali, dalle associazioni che si occupano di discorsi d’odio e di discriminazioni ecc. Insomma, un lavoro su più livelli.
Inoltre, per quanto riguarda i social media, Debora conclude dicendo che come questi possono essere uno strumento di diffusione dell’odio, allo stesso modo possono diventare uno strumento di diffusione del cambiamento. Quindi la sensibilizzazione al tema dello skinny shaming dovrebbe avvenire anche nel mondo online, dove purtroppo si verificano spesso gli episodi più crudi e violenti di questa forma di hate speech.