di Loris Martino
Sul mio sito, insieme ad altri articoli riguardanti le nuove frontiere pedagogiche, trovate “Il metodo danese per crescere bambini felici” di J. Alexander e I. Sandal. Titolo che cita un testo fondamentale nell’ambito dell’educazione nordica, in particolare per quanto concerne i bambini danesi. Il contenuto discute il motivo per cui proprio la Danimarca sia il Paese più felice al mondo, da quasi mezzo secolo. Merito, sembrerebbe, della particolare maniera con la quale si alleva la generazione successiva, intrinseco alla cultura danese; riassumibile dall’acronimo particolarmente appropriato “PARENT”.
Attribuendo a tale approccio il motivo principale dietro la soddisfazione di un popolo, la tesi del libro può parere una sorta di “determinismo del metodo educativo”. Non si considerano molte altre cause che esulano dalla pedagogia. Tuttavia, una critica simile considererebbe l’oggetto di questa disciplina solo alla stregua di una tipologia di rapporto che media delle informazioni. Il maestro che guida consapevolmente il discente verso il risultato prefissato. Invece, ampliando la visione a tutto il “dispositivo”, per riportare una definizione ripresa dalla corrente post-umanista, si arriva ad un grado maggiore di interdipendenza.
Così, l’interesse pedagogico raggiunge l’ambiente in cui la relazione formativa è situata. Questo risulta composto anche da strumenti utili nel processo, ed influenze esterne, in grado comunque di plasmare l’agency dell’individuo, sebbene in maniera accidentale. Quindi, il metodo PARENT ha veramente il potere di plasmare una nazione, in maniera diretta o indiretta, intrecciandosi strettamente con altri fattori determinanti.
Concepita in tal modo, la sua utilità emerge persino nel contrastare alcuni problemi contemporanei, come il discorso d’odio, sia nella vita “reale” che virtualmente. Alcuni dei concetti che lo costituiscono, riassunti ognuno in una lettera, possono darci degli spunti.
“P” sta per “play”. Durante l’infanzia, il gioco libero contribuisce allo sviluppo di svariate social, life, soft e 21th century skills imprescindibili al fine di rapportarsi adeguatamente con gli altri. Grazie alle interazioni con i compagni, vengono apprese strategie di adattamento allo stress e negoziazione, ma anche autocontrollo, fiducia nelle proprie capacità e resilienza. Perciò, bisognerebbe lasciare ai giovanissimi tempo libero e spazi adeguati per svolgere attività del genere. In maniera da aiutarli a diventare adulti capaci di relazionarsi in ambienti complessi caratterizzati da innumerevoli attori sociali appartenenti a diverse categorie, quali la rete.
“R” di “reframing”: una strategia significativa per modificare la percezione nei confronti dell’esistenza. Le strategie di ristrutturazione relative alla gestione delle emozioni consentono di calmarsi e riflettere prima di reagire sfogandole in un commento sui social, o altre azioni impulsive. Inoltre, un tipo di atteggiamento, quello ottimistico-realista, permette di non ignorare le informazioni negative, concentrandosi però su quelle positive. Il che può essere molto efficace nel superare eventi traumatici da parte delle vittime di hate speech.
“E” indica “empathy”: una tendenza insita nell’uomo, la quale però sta diminuendo sempre più nella nostra società lasciando il posto ad alti livelli di narcisismo. Imparare a giudicare e rimproverare meno frequentemente aiuta ad accettare meglio la fragilità dentro chiunque. Conseguentemente, trattando i nostri figli con empatia insegniamo loro il rispetto in generale. Essa, insieme alla compassione e all’amore premuroso teorizzato da Sara Ruddick, agiscono creando un sentimento di interesse verso gli altri soggetti. Rispettivamente percependo le loro emozioni, cercando di lenire o non causare la sofferenza altrui, e riconoscendoli nella loro unicità. L’importanza di esprimere sentimenti legati alla cura aumenta quando i destinatari sono distanti o ridotti a profili su uno schermo, a causa della spersonalizzazione, la quale ne rende difficile l’esercizio.
“N” vuol dire “no ultimatums” (nessun ultimatum). Purtroppo molti genitori ancora puniscono fisicamente o psicologicamente per disciplinare i figli, perdendo il controllo mentre ci si aspetta che loro non lo facciano. Tipico dello stile genitoriale autoritario è la sostituzione della vicinanza ai propri figli con la paura. Quello autorevole applicato dai danesi, invece, è diplomatico, facendo sentire i bambini rispettati e compresi, e così sviluppano un senso di autocontrollo molto più stabile. Risultato? Le basi per la comunicazione assertiva sono già poste. L’obiettivo del discorso non diventa né aggredire l’interlocutore né lasciarsi influenzare, ma esprimere chiaramente le proprie posizioni in un clima di autostima e validazione sia propria che dell’altro, nonostante possano esserci divergenze culturali o di pensiero.
“A” di “authenticity” e “T” di “togetherness” sono le altre due componenti. Il primo incita principalmente a trasmettere la fiducia nelle proprie emozioni, per incentivare la sicurezza in sé stessi fin da piccoli. Il secondo a creare un nucleo familiare intimo e accogliente, lasciando al di fuori le proprie preoccupazioni per concentrarsi solo sul “noi”. Guardando al contrasto del discorso d’odio, credo che completino quanto già detto, catalizzando il processo che porta alla formazione di personalità mature ed equilibrate.
In quale modo io padre/madre, nonno/nonna, insegnante, educatore/educatrice eccetera, posso diventare la migliore versione del ruolo che ricopro? Vi esorto a leggere il libro per intero, dove troverete molte altre possibili risposte, inerenti abitudini danesi nel crescere gli adulti del domani. Prassi da cui sicuramente noi italiani abbiamo molto da imparare.
N. d. A.: trovate altri articoli riguardanti la cultura umanistica contemporanea sul mio sito www.metameblog.com