25 Novembre 2024

“Non si può più dire niente!” – Gender-based hate speech nel dialogo tra generazioni

di Francesca Picchiotti

In occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne del 25 novembre soffermiamoci a riflettere su come il linguaggio quotidiano continui a perpetrare una discriminazione di genere che, difatti, può coincidere con il fenomeno del discorso d’odio.

Intanto precisiamo che al termine violenza sulle donne preferiamo violenza di genere, quale termine ombrello al cui interno sono riunite molte più realtà e identità. A tal proposito, balza alla mente proprio l’importanza di un uso appropriato del linguaggio.

In particolare, nel dialogo con “i boomer” spicca la componente di divario generazionale che porta con sé cambiamenti nel linguaggio e nel modo di esprimersi. Perché la nostra generazione dà così tanto peso a certe parole o concetti, come nell’educazione infantile o negli epiteti utilizzati per rivolgersi alle minoranze e ai soggetti vulnerabili? In fondo si tratta di un gergo colloquiale che non necessariamente corrisponde al pensiero o al giudizio di chi lo utilizza.

“Non si può più dir niente!” È così? Siamo giunti allo stremo del politicamente corretto? Di questo passo che ne sarà di satira e comedy? Ma soprattutto, che spazio resterà alla libertà d’espressione?

Le generazioni Y e Z, cresciute nell’era digitale e dei social media, hanno imparato a loro spese le conseguenze dell’hate speech, vittime di un linguaggio spesso spietato ed intriso di forme più o meno subdole di patriarcato e discriminazione, perciò più predisposti ad un cambiamento nella lingua.

Viceversa, poiché gli eventi storico-politici condizionano la visione del mondo, la generazione dei Baby Boomer insiste su ben altre questioni come le ideologie decadute, l’avvento della tecnologia avanzata, ma soprattutto la libertà d’espressione ottenuta con non poco sforzo e il cui diritto merita di essere difeso.

Fermo restando l’importanza del diritto imprescindibile alla libertà di parola, la pervasività di espressioni patriarcali e gender-based hate speech nei modi di scherzare, nell’educazione e, in generale, nel quotidiano contribuiscono ad accrescere il gap di genere che ci separa dall’uguaglianza e ci spinge alla ricerca di un punto di incontro. Inoltre, ogni diritto o libertà personale deve essere accompagnato da un senso di responsabilità e di dovere verso il prossimo, che imponga anche limiti ragionevoli che non danneggino chi rivendica i nostri stessi diritti.

Considerando che la tolleranza di queste forme di espressione discriminatorie nel linguaggio comune accresce la normalizzazione di ulteriori forme di violenza psicofisica di genere, appare fondamentale costruire azioni di contrasto che partano proprio dalla sensibilizzazione delle stesse, creare il dialogo. Nonostante il processo in atto di de-normalizzazione del patriarcato abbia favorito un aumento nelle denunce di violenza di genere che fa ben sperare, per contro ha riesumato l’altra faccia della medaglia. Sempre più spesso, la controparte, sentendosi repressa e minacciata dal femminismo concepito come lotta alla supremazia del genere femminile, si rifugia in forme più o meno estremiste di maschilismo e patriarcato. Come in ogni momento storico di rivoluzione, segue un momento di repressione che inevitabilmente culmina in violenza e che coincide con ciò che sta accadendo. Altrettanto inevitabilmente, però, la coscienza di coloro che l’hanno vissuta ha subìto la stessa rivoluzione e ristabilire l’equilibrio che la precedeva sarà irrealizzabile.

Questi contrasti, allora, oltre ad evidenziare il cambiamento in atto, rendono imprescindibile un bisogno primario di dialogo e sensibilizzazione, a cominciare dalla definizione e conciliazione di femminismo e libertà d’espressione. Se condotti con attenzione, possono essere determinanti nel processo di cambiamento, ma per farlo devono coinvolgere tutti gli interlocutori, facendo leva sull’empatia e parlando un linguaggio chiaro a tutti i suoi destinatari.

 

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