17 Marzo 2025

La politica della post-verità, versione 2.0

di Loris Martino

 

A quattro mesi dall’elezione di Trump come presidente USA, nuovamente, viene spontaneo guardare al suo primo mandato, ed incominciare ad individuare le similitudini. Noteremo che contrastare transizione ecologica ed immigrazione, porre dazi, voler controllare Gaza, eccetera, riflettono una particolare cultura in ambito politico; nulla di troppo innovativo.

Durante la sua vittoria del 2016 già si discuteva sulla “politica della post-verità”, abbastanza da riconoscere post-truth Parola dell’Anno da Oxford Dictionaries. Poco tempo dopo la versione italianizzata è entrata persino nel dizionario Treccani dei neologismi. L’utilizzo nella letteratura in realtà risale alla fine del Novecento, ma in questo ultimo periodo riscuote un rinnovato interesse accademico. Cosa significa?

Che dire la verità, e ricercarla, non è più una condicio sine qua non per fondare campagne elettorali e un consenso pubblico efficace. Gli obiettivi dell’agenda presidenziale americana, per cui è stata votata, si posizionano contro il parere scientifico consolidato. Lo stesso nei confronti dell’approccio globalista solidale, utile se vogliamo continuare a sopravvivere sull’unico pianeta dove attualmente risiediamo, in maniera interdipendente. E se non crediamo alle speculazioni utopistiche di Musk.

Il fenomeno non poteva che svilupparsi nella postmodernità, l’epoca dagli anni ’90 in poi, appunto. Stiamo assistendo alla liquefazione delle sovrastrutture sociali, citando Bauman; fra cui il rapporto con i mass media stesso. Prima della pandemia tale consapevolezza riguardava soprattutto i social e internet: terminata l’era della televisione, ora si potevano ottenere informazioni rapidamente e da chiunque. Barattare il tempo risparmiato con l’accuratezza e autorialità della fonte iniziava però a generare fake news e disinformazione. In tutto ciò, le persone al potere erano sia vittime che le prime a marciarci sopra.

Oggi, nemmeno una decade dopo, andiamo incontro ad un’ulteriore evoluzione del processo dovuta alle intelligenze artificiali, le quali fanno da catalizzatrici. Riconoscere il reale e il falso in alcuni casi diventa quasi impossibile, di conseguenza aumenta la polarizzazione delle opinioni.

Una precisazione: il concetto di post-verità non significa negare che si possa indagare realtà sociale. È un fraintendimento comune, che confonde la postmodernità con la corrente postmodernista. Quest’ultima, attiva soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, sosteneva un relativismo e scetticismo paralizzante in ogni campo dello scibile umano. Invece, si può parlare di una manifestazione sociologica riconducibile al metamodernismo. Trattasi del paradigma filosofico di inizio millennio, in grado di riconoscere la complessità e fallibilità della conoscenza, senza sminuirne l’importanza.

N.d.A.: del metamodernismo ho parlato in molteplici occasioni sul mio sito, www.metameblog.com

Le post-truth politics incarnano perfettamente la sua ambivalenza, attraverso la consapevolezza di poter definire qualcosa “veritiero” in modalità e gradazioni differenti. Inoltre, il metamodernismo riconosce il ruolo della soggettività nella creazione delle convinzioni personali, a fianco del ragionamento oggettivo. Candidati, premier, leader, lo sanno bene, e sfruttano meccanismi simili per manipolare gli elettori, servendosi di slogan brevi ed efficaci, non di rado veicolati dall’odio, nel parlare alla loro “pancia”.

Vediamoli più nel dettaglio. La psicologia cognitiva definisce “ragionamento emotivo” l’atteggiamento di chi deduce la verosimiglianza di una propria ipotesi a partire dalle emozioni provate. Sono arrabbiato, quindi l’altra persona deve aver sbagliato, per esempio. Abbiamo anche il bias di conferma, secondo cui la gente si informa prevalentemente in riferimento ai propri interessi e credenze pregresse. Si capisce, quindi, perché risulti facile formulare narrazioni distorte su un particolare tema, e perché sia possibile, da parte di terzi, sfruttare bias fondati su narrazioni d’odio verso determinate categorie di persone per trarne vantaggio.

Come fare, allora, al fine di contrastare il fenomeno? Molte delle soluzioni proposte cercano di migliorare la situazione in maniera top-down. Limitare l’assolutismo della libertà di parola, e prendere posizione etica sulla protezione del sapere verificato, per riportarne un paio. Quello che possiamo fare noi dal basso, diversamente, è portare avanti azioni concrete di attivismo, finalizzato ad aumentare l’alfabetizzazione digitale.

Progetti affini a Hate Trackers possono costituire esperienze significative in tal senso, poiché aiutano le nuove generazioni a sviluppare il pensiero critico riguardo le interazioni con i social. Interazioni in grado di veicolare spesso delle idee su altre persone, indipendentemente da un riscontro fattuale che vada al di là del mero pregiudizio. Il risultato sono dinamiche discriminatorie e di hate speech, in grado di alimentare vere e proprie campagne di mala-informazione.

Unicamente dalla convergenza fra i due approcci si potrà realizzare un vero cambiamento, sotto molti punti di vista, nell’era 2.0 in cui viviamo.

 

Ti potrebbe interessare

di Luca Cavaliere   “Be quiet, small man” è questa la risposta di Elon Musk alle critiche del ministro polacco degli affari esteri Radoslaw
di Loris Martino   A quattro mesi dall’elezione di Trump come presidente USA, nuovamente, viene spontaneo guardare al suo primo mandato, ed incominciare ad
di Francesca Picchiotti   All’alba del suo nuovo mandato amministrativo, Trump è determinato ad accogliere i favori di tutte le fasce di cittadini americani.