di Matteo De Nicolo.
L’impulso di odiare con le parole è un vizio antico, non un’invenzione dei social media. È un filo oscuro che attraversa l’intera storia umana, un’arma retorica che le società hanno affinato per secoli per definire il “noi” contro il “loro”. È l’arte di trovare un capro espiatorio, demonizzarlo e, in ultima analisi, perseguitarlo.
Già nell’antica Roma, lo storico Tacito dipingeva i cristiani come una setta segreta e sovversiva, “nemici del genere umano”, fornendo la scusa perfetta per perseguitarli. Nel frattempo, nel mondo ellenistico, autori come Apione si dilettavano a fabbricare calunnie contro gli ebrei, narrazioni tossiche che hanno resistito per millenni. Il copione era già scritto: per unire, basta trovare un nemico esterno.
Con il Medioevo, questa dinamica divenne un’istituzione. La retorica delle Crociate trasformò i musulmani in “infedeli da sterminare”, mentre le leggende del sangue contro gli ebrei non restavano solo nei sermoni, ma si traducevano in pogrom ed espulsioni. La Chiesa cattolica, quasi come un precursore di un’app per l’esclusione sociale, con il Concilio Lateranense del 1215, impose agli ebrei segni distintivi. Fu un tragico precedente per quelle che sarebbero diventate le stelle gialle. Poi arrivò la stampa a caratteri mobili di Gutenberg, e l’odio trovò il suo moltiplicatore di forza. I pamphlet potevano finalmente diffondersi in massa e a velocità supersonica per l’epoca. Anche un rivoluzionario come Martin Lutero non ne fu immune: il suo scritto “Degli ebrei e delle loro menzogne” divenne una pietra miliare dell’antisemitismo tedesco.
Paradossalmente, l’Illuminismo, pur inneggiando alla tolleranza, generò nuove, più subdole forme di intolleranza. Sotto la patina della scienza, fiorì il razzismo pseudoscientifico. Il sistema di classificazione tassonomica di Carl Linnaeus, sebbene rivoluzionario e inizialmente descrittivo, incluse l’essere umano (Homo sapiens) all’interno dello schema naturale, cioè, classificò l’Homo sapiens come una specie animale tra le altre, soggetta alle stesse leggi e agli stessi criteri di classificazione di tutti gli altri organismi viventi. La sua suddivisione dell’umanità in varietà basate su caratteristiche fisiche e presunti tratti caratteriali (una categorizzazione oggi superata e biologicamente infondata) fornì, suo malgrado, un linguaggio e una struttura apparentemente scientifica che teorici successivi, come Georges-Louis Leclerc de Buffon, interpretarono in senso gerarchico. Questa torsione delle sue categorie fu utilizzata per costruire un framework di superiorità e inferiorità, giustificando così la rigida supremazia delle popolazioni europee bianche. Persino un paladino della libertà di pensiero come Voltaire esibì pregiudizi razzisti e antisemiti, dimostrando come gli ideali universali faticassero a sradicare i pregiudizi sedimentati.
L’Ottocento, il secolo dei nazionalismi, diede all’odio un’aura patriottica. La teoria della superiorità culturale tedesca di Fichte e l’antisemitismo razziale di Chamberlain furono i fertilizzanti per l’orrore nazista.
Il Novecento è il secolo in cui l’odio diventa un’industria. In Germania, Joseph Goebbels trasformò la propaganda in una scienza, dipingendo gli ebrei come la causa di ogni male. Giornali come il “Der Stürmer” portavano questo odio nelle case, con disegni grotteschi e bugie che li facevano sembrare mostri. Anche in Italia, Mussolini creò un ministero per controllare le informazioni, trasformando il Duce in un eroe infallibile e i suoi avversari in “traditori”. Le leggi razziali del 1938 furono la ciliegina sulla torta, etichettando gli ebrei come un pericolo per la “purezza della razza italiana” su riviste come “La Difesa della Razza”. Almeno i nazisti, per giustificare il loro odio, cercavano di trovare una base scientifica. Oggi, invece, si può essere razzisti anche per opinione. In Russia, Stalin usò la propaganda per scovare i “nemici del popolo”, dai contadini benestanti agli oppositori politici. I giornali di Stato li descrivevano come parassiti e insetti, giustificando le purghe e i processi farsa. Questo modello si è ripetuto in genocidi più recenti, come in Ruanda nel 1994, dove le parole di “Radio Mille Colline” sono state il preludio di un massacro.
Oggi, l’odio si veste di una nuova normalità. La novità non è il discorso d’odio, ma la sua pervasività e la capacità distruttiva iper-amplificata del singolo. Il linciaggio virtuale non è più una pratica di nicchia, ma una realtà quotidiana: un tweet, un post, un commento possono rovinare una vita in pochi minuti. Se un tempo serviva una macchina della propaganda per rovinare una reputazione, oggi basta un singolo utente con uno smartphone. È qui che si manifesta la differenza tra un atto psicologico e un atto politico. Parlare di hate speech come un semplice sfogo emotivo è un grave errore. Non è una questione di “cattivo gusto”, ma di un atto deliberato, un’azione politica che mira a delegittimare, marginalizzare e annullare l’altro. L’anonimato e la viralità dei social media non sono un semplice contorno, ma la benzina che alimenta il fuoco. Il singolo che pubblica un tweet d’odio non lo fa solo per sé, ma contribuisce a una battaglia per la narrazione e la supremazia ideologica.
Poi, la rivoluzione digitale. Internet ha rappresentato uno sconvolgimento paragonabile alla stampa, ma con una portata e una velocità infinite. La piattaforma è cambiata, ma la dinamica è la stessa, solo potenziata: anonimato, viralità e algoritmi che, cercando l’engagement, favoriscono i contenuti polarizzanti. Le “camere d’eco” digitali accelerano la radicalizzazione di individui isolati. Oggi, l’odio indossa nuovi abiti, riflettendo le paure contemporanee: l’islamofobia, la xenofobia, le teorie del complotto pandemico. Movimenti come QAnon o la teoria della “grande sostituzione” sono ibridi mostruosi di antichi pregiudizi e tecnologia moderna.
E all’orizzonte si profila la nuova frontiera dell’intelligenza artificiale, con i deepfake che possono fabbricare prove convincenti per l’odio, mentre l’IA stessa, in un duplice ruolo, viene usata per individuarli e contrastarli. Comprendere la profondità storica di questo fenomeno non è un esercizio accademico. Ma la precondizione per non esserne sopraffatti. Il discorso d’odio non è un’anomalia, ma una tentazione perenne della condizione umana. Contrastarlo richiede più che semplici strumenti tecnici: richiede una consapevolezza che affondi le radici in questa memoria condivisa, per riconoscere i pattern tossici non appena riemergono, in qualsiasi forma si presentino.