7 Novembre 2024

Elezioni americane: un commento a partire dal discorso d’odio

di Emanuele Russo

Ieri tutto il mondo ha assistito alla vittoria schiacciante di Donald Trump nella corsa alle presidenziali americane. Quello che tutti i sondaggi, sia quelli pro-Trump sia quelli pro-Harris, presentavano come un sostanziale testa a testa, si è rivelato un deciso atto di fiducia verso uno dei più controversi personaggi politici della recente storia statunitense.

La nostra opinione, riguardo a questo primo elemento, è che entrambi i gli schieramenti abbiano, in modo più o meno consapevole e deliberato, scelto di dichiarare un testa a testa per supportare le proprie scelte. Chi voleva Trump alla Casa Bianca ha deciso di rappresentare un candidato in pericolo, minacciato dalle élite e bisognoso di un supporto particolare. Ha voluto, cioè, scatenare l’effetto underdog, che spinge le masse a votare il candidato ritenuto perdente proprio per la sua debolezza.

Chi voleva Harris, la candidata che davvero aveva davanti a sé la strada più in salita, ha cercato di generare nelle persone chiamate ad esprimersi un effetto band-wagon, cioè una situazione in cui il candidato ritenuto vincente ottiene il supporto suppletivo di molti indecisi perché questi vogliono salire sul carro del vincitore.

Alla fine hanno avuto ragione i primi. Nei prossimi giorni le cose verranno chiarite ed emergeranno nuove informazioni, tuttavia, dalla nostra prospettiva, proveremo a dare alcuni commenti a caldo.

Trump ha vinto perché il suo discorso politico è particolarmente funzionale alla logica degli algoritmi che gestiscono i contenuti dei social media. Questo aldilà del suo carisma e delle difficoltà oggettive di Kamala Harris nel condurre una campagna elettorale entrando in corsa, appesantita dagli errori dell’amministrazione democratica e dal suo essere la prima donna candidata con origini indiane e giamaicane. La struttura che regge i luoghi virtuali dove passiamo la maggior parte del tempo non è neutra, ma favorisce alcuni tipi di contenuti a discapito di altri. Nello specifico, i contenuti che stimolano più facilmente reazioni, cioè quelli legati alle emozioni forti. Tra queste, la paura, la rabbia e l’odio sono le più efficaci. L’attenzione degli algoritmi a questi sentimenti non è legata alle idee politiche dei loro proprietari, anche se almeno nel caso di Elon Musk questo è vero, ma al fatto che l’obiettivo dei social media è tenere il più possibile le persone attaccate allo schermo, e farle produrre il maggior numero possibile di informazioni sul proprio conto. Scopo primario delle piattaforme è generare informazioni utili a profilare sempre meglio gli utenti, in modo da permettere agli inserzionisti di costruire strategie comunicative sempre più efficaci.

Harris ha perso perché ha concentrato il proprio discorso in chiave reattiva. Il suo scopo era convincere le persone a non votare Trump, non a votare lei. Così, i temi del dibattito elettorale sono stati scelti dal candidato repubblicano, e sappiamo bene che, nei social media e ormai anche nel mondo reale, i commenti al contenuto valgono sempre un po’ meno del contenuto stesso.

Se nel 2009 Barack Obama riuscì a sbaragliare le carte proprio attraverso un uso sapiente di social network ancora agli albori, oggi è impossibile vincere alcuna battaglia politica senza conoscere a menadito la struttura portante degli algoritmi. E, anche conoscendola, bisogna avere la consapevolezza che i discorsi divisivi, fondati sulla paura e sull’odio, avranno sempre maggior successo di quelli, più ponderati e complessi, fondati sulla democrazia e i diritti umani.

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